Prezzo € 18,00
Autore Marina Petrillo
Anno 2023
Pagine
Marina Petrillo è nata a Roma, dove vive e risiede. Giovanissima entra a far parte di ambienti letterari e circoli poetici, entra in contatto con poeti quali Paolo Ruffilli, Aldo Piccoli e Franco Zagato. Nel 1984 partecipa alla manifestazione “Poeti in Piazza”, Venezia, seguirà la pubblicazione di alcune sue liriche nell’antologia abbinata al “Premio LEONE D’ORO” per la poesia. Nel 1986 pubblica la sua opera prima, Il Normale astratto, Edizioni del Leone, prefazione di Aldo Piccoli. Seguirà un lungo periodo di studio di nuove discipline e vie di sperimentazione artistica e di scrittura volte al collegamento tra vari campi di ricerca. Interessata alla “trascendenza”, si dedica allo studio di discipline quali la Cabala e l’ermeneutica di testi sacri e filosofici di varie culture. È pittrice. Dalla collaborazione con l’artista reggiano Marino Iotti, nasce nel 2016 “Tabula Animica”, premiata all’Art Festival di Spoleto nel 2017. Nel 2019 pubblica per Progetto Cultura “materia redenta”, segnalata nel 2020 al Premio Internazionale Mario Luzi. Sue poesie compaiono su riviste letterarie e antologie. Ha collaborato alla rivista “l’Ombra delle parole” di Giorgio Linguaglossa e suoi articoli sono apparsi sul “Mangiaparole”. Sue poesie sono inserite nella plaquette celebrativa dedicata da AltrEdizioni a Nanni Balestrini e, in corso di stampa, ad Adriano Spatola. È intimamente convinta dell’intrinseco legame che si instaura tra poesia e phonè, tale da evocare, in chi ascolta, l’attivazione di uno stato introspettivo fecondo per la propria crescita interiore. La raccolta che qui si pubblica si è classificata vincitrice del “Premio Internazionale Centro Giovani e Poesia – Triuggio” 2023 per una silloge inedita.
UNA POESIA EPIFANICA di Francesco Solitario
Quest’opera è talmente ricca e complessa che a tutta prima si rimane sconcertati.
È un libro di poesie o di filosofia? Poesie che si alternano a pagine di filosofia, ma non usuali e di stretto metodo filosofico, e dunque poesie a commento di pagine filosofiche, o filosofia a commento e integrazione di poesie? Lo attesta chiaramente la serqua di filosofi citati, da Agamben, che apre addirittura la raccolta, a Heidegger e Bergson.
Pure nella nostra latitudine occidentale, storico-culturale, poesia e filosofia sembrano contrapporsi, quasi sfidarsi l’una con l’altra. È una questione di metodo, ma entrambe puntano a raggiungere la stessa meta, seppure per strade diverse: l’essenza dell’uomo, delle cose, dell’universo tutto, è avocato a sé dall’una e dall’altra. Platone condannò la poesia, e in forza della sua grandezza determinò una crepa che s’allargò nel tempo. Ma la poesia sopravvisse e anzi, gloriosa nella stessa terra di Platone, pretese avere potere e luogo tutto per sé. Non volle comprendere Platone (che pure aveva accettato la visione pitagorica dell’anima prigioniera del corpo) che la poesia si rivolge all’anima e la filosofia alla ragione, ma che entrambe sono consustanziali nello stesso uomo, e l’una senza l’altra non può “essere”. La poesia e la filosofia sono monche se si obbligano a percorrere strade diverse: l’uomo nella sua totalità ha bisogno sia dell’una e sia dell’altra.
Così in questa raccolta di Marina Petrillo, che per convenzione chiameremo raccolta di poesie, la filosofia, o meglio la filosofia nella forma che più si avvicina alla poesia ovvero la metafisica, vira verso la poesia, e la poesia con forte sostrato di pensiero vira verso la metafisica, con puntate verso un territorio affine, la mistica.
A rendere più complesso l’impianto teoretico-poetico della raccolta le varie incursioni in discipline e luoghi di pensiero “altro”: la cabalà, i tarocchi, la matematica e la fisica, l’alchimia, l’esoterismo, il mito, i simboli nascosti o palesi, e tanto altro ancora, con una tale densità di materiali vari che possono disorientare e quasi perdere anche il lettore più avveduto e attento in un labirinto da cui non riesce a districarsi o a liberarsi.
Non è un testo, questo, da leggere passivamente. Petrillo chiede al lettore di impegnarsi in prima persona per comprendere, per capire, per scavare a fondo nella sua scrittura che resterebbe difficile, e talora indecifrabile, senza uno sforzo dell’intelletto e del cuore di chi legge, senza una precisa volontà di carpire segreti nascosti.
Marina Petrillo è poeta ispirato, passionale, ora bardo, ora sibilla, ora un’invasata di Eleusi, profeta e sacerdotessa di antichi riti religiosi misterici: «Ho acquistato il delirio in un giorno di marzo» ammette candidamente. I suoi versi sembrano talora frutto di sogni o di giochi di un dio dispettoso, o di impalpabili dormiveglia dove la vita delle cose e dell’universo tutto sembra a portata di mano, ma sempre inafferrabile, sempre un po’ più in là. Orizzonti larghi, spazi immensi, infiniti, si sposano a monadi di una piccolezza infinitesimale fino a sfiorare il nulla. Poesia che si nutre di pensiero, pensiero che si nutre di sogni, sogni che si materializzano in poesia fortemente evocativa.
La mente del lettore ne resta ebbra, sconvolta, incapace talora di procedere lungo il cammino tracciato dal poeta, tra ombre e nebbie di parole da una parte e dall’altra una luce illuminante, accecante, che cerca di sciogliere quelle ombre e diradare quelle nebbie. Dove togliere il velo a quelle nebbie significa avere in dono una rivelazione che in quanto tale, e all’istante, si ri-vela, si vela di nuovo, in un gioco divinamente poetico di rincorrersi euristico infinito.
Una raccolta poetica di tale densità e consistenza, di tale valore, da renderla unica e preziosa nel panorama della poesia italiana contemporanea. Una raccolta di una tale compattezza che non si può citare un verso o un pensiero o un rigo avulso dal suo contesto senza tradire l’ispirazione stessa o le intenzioni del poeta.
In tale complessa mole di materiale poetico l’unico aiuto che si può offrire al lettore è una sorta di sottile filo di Arianna, sempre pronto a spezzarsi, che soccorra il lettore nello sforzo di inoltrarsi e addentrarsi nel labirinto creato dal poeta («Il labirinto si staglia a meraviglia / Essere onda del sé») per cercare poi di uscirne indenne, non solo, ma arricchito dai tesori che avrà scoperto.
Nell’impossibilità di circoscrivere un discorso di per sé non confinabile, indicheremo solo alcuni temi o spunti, nel viluppo del complesso discorso poetico della Petrillo, che possono indicare un eventuale percorso da seguire.
Nella Nota iniziale dell’Autrice viene posto subito l’accento sul potere della parola e sui suoi limiti: «L’indicibile è in quello spazio sottratto al nulla della parola che non trova espressione se non attraverso il suo opaco riflesso. La poesia tenta di abitare tale cono di ombra in luce, tracimando ciò che l’esperienza sensibile nega».
La parola ha una sua forza e una sua potenza, ma se l’obiettivo è cogliere l’indicibile non basta. Pure, però, la parola “poetica” tenta di occupare questo spazio d’ombra, memore forse delle parole di Heidegger: «Poeticamente abita l’uomo», dove si intende che l’uomo in tal modo sta alla presenza degli dei, toccato dalla vicinanza essenziale delle cose. Condizione teoretico-esistenziale che non è frutto di ricerca, ma vero e proprio dono.
L’indicibile è una sorta di ossessione del nostro poeta, lo ripete spesso, indicando l’ansia, e la paura, da una parte di non riuscire a dire ciò a cui la mente o il cuore tramite la parola tende, e dall’altra di volere comprendere e carpire il segreto dell’indicibile:
«Assiomadell’indicibile in altro idioma. Vissi in maestriadifforme laseparazione dal non diviso Logos».
«Siamo nell’assente dormiveglia
sino a quando, toccati dalla tragedia,
non cediamo campo all’indicibile».
«Essere sullasogliadell’indicibile è forse lasciarsi fluire tracorrenti gelide, come fosse attitudine del poetaunasortadi transustanziazione linguistica».
Nell’ultima citazione si fa cenno, forte, al trovarsi quasi al cospetto dell’indicibile, come se si potesse forse usare una sorta di transustanziazione linguistica tale da rendere palese e dicibile l’indicibile. Operazione strutturalmente impossibile, e questo è il dramma del poeta, perché un indicibile reso dicibile perderebbe tutta la forza e la potenza dell’indicibile stesso; come chiudere l’infinito nel finito, diventerebbe un’altra cosa, un infinito depotenziato a finito, così come un indicibile verrebbe depotenziato dalla nebbia spessa della parola dicibile.
Tutta l’opera ha questa ansia, questa tensione irrisolta verso l’Assoluto, che si vuole com-prendere o avocare a sé, tensione che arriva spesso fino ai limiti e ai confini dell’Assoluto oltre cui, si ripete il dramma, non c’è comprensione, pena la morte della parola, che per un poeta è una tragedia.
Ciò porta a una oscillazione tra Essere e Nulla, tra Pieno (e corposo) e Vuoto. Il Vuoto, soprattutto, che in questa raccolta occupa quasi lo spazio sospeso tra Essere e Nulla. Una sorta di «vuoto abitato dallo stato di presenza» come afferma Simone Weil citata testualmente da Petrillo che ne sposa l’affermazione.
Un Vuoto che si avvicina al senso taoista del capitolo XI del Tao the Ching laddove afferma:
«Trenta raggi convergono sul mozzo,
ma è il foro centrale che rende utile la ruota.
Plasmiamo la creta per formare un recipiente,
ma è il vuoto centrale che rende utile il recipiente.
Ritagliamo porte e finestre nelle pareti di una stanza:
sono queste aperture che rendono utile la stanza.
Perciò il pieno ha una sua funzione,
ma l’utilità essenziale appartiene al vuoto».
Qui il vuoto non si intende nel senso occidentale parmenideo di “non essere” assimilabile ad un nulla assoluto, a un vuoto puro, totale. Qui il vuoto rimanda ad una “assenza determinata”, una sorta di “qualcosa che non c’è”, ovvero si riferisce piuttosto ad un “vuoto determinato”, nel senso di “ciò che, in qualcosa, non c’è”. Ossia si designa il “non esserci”, il “non c’è” di un recipiente che ne costituisce “l’utilità”. Questo vuol dire che qui si indica un vuoto “determinato” e non astratto, e dunque non è un concetto generale ma, segnalando l’efficacia del vuoto di qualcosa, se ne indica anzi la Presenza, così come afferma Simone Weil, e Petrillo fa proprio. Non si tratta – aggiungiamo per maggiore comprensione – di un vuoto come non-essere in sé e per sé, ma di un non-essere diversamente determinato, ovvero di un vuoto “specifico”: di quello del mozzo, di quello del recipiente, di quello delle porte e delle finestre. Così il buddismo può parlare di “vero vuoto” (nirvana).
La stessa Petrillo, usando poeticamente un’antica sapienza, accosta “presenza” a “vuoto” già nella Nota che apre e precede la sua raccolta: «Sappiamo della nostra presenza / ma non ci coglie / impreparati / il vuoto trafelare dei giorni / quando per ignoto sentimento / il ciglio della strada / ammette il suo travaglio / e slarga l’orizzonte».
Presenza e Vuoto che fanno eco alle parole del monaco zen Paolo Taigō Kōnin Spongia quando avverte che: «Ogni momento che ci è concesso in questa forma umana è un fiore che sboccia nel Vuoto: appare e scompare. Dobbiamo studiare costantemente il tempo della nostra Presenza».1
1 Cfr. Paolō Taigo Spongia, La forma del vuoto, Edizioni Mediterranee, Roma 2022.
E Petrillo, pur riaffermando quella “presenza” nel “vuoto”, non sa decidersi e oscilla ora verso una presenza del “vuoto” più “assoluta” quando afferma: «Dal Vuoto nasce la costola dell’Assoluto Presente», ora verso un vuoto “relativo” «Appartiene al passaggio dell’Essere quel vuoto relativo», ove tutto è possibile «Nel vuoto Ade, tutto è possibile». Pur tuttavia l’oscillazione pone solo il dubbio sulla “forma” di quella presenza, se relativa o assoluta, non sul suo esserci.
E dunque non è un caso, se poi continuando la lettura dell’opera, troviamo una lunga sequela di citazioni del termine “vuoto”, e talora in grassetto a evidenziarli con più forza, ne citiamo solo alcuni:
– «Se non andrà perduto nulla, altro si aggiungerà al vuoto».
– «…giunto all’apice del Vuoto inclinare».
– «Il tentativo di essere abbraccia un vuoto ricomposto in sintassi goniometrica».
– «…nell’agire trova conferma o, nell’opposto, giunge a sconfinare il vuoto».
– «…nell’aria / né umana né divina, indistinto velo / prossimo al Vuoto».
– «Il vuoto campo di liturgie simboliche».
– «Esiste un’attitudine al Vuoto».
– «Sì che in metamorfosi trae spinta il sogno raggiunto dal suo doppio, come potesse dilettarsi il Nulla nell’assenza o, in limite estremo, il Vuoto».
E nell’ultima citazione Petrillo si lancia in un altro assai ardito passaggio teoretico-poetico: dal Vuoto si accosta al suo (almeno apparentemente) più prossimo, il Nulla.
Non ci sono equivoci, non ci sono incertezze o dubbi, troppi anche i ritorni al Nulla nella raccolta, e accostati ai suoi prossimi, il vuoto e il silenzio, così:
– «Se non andrà perduto nulla, altro si aggiungerà al vuoto».
– «Fummo nel nulla primi alla vita. Antesignani al primo silenzio».
e poi ancora:
– «[…] l’Ade, nel nulla svapora a molecola instabile».
– «Trascorse tempeste compongono il rituale: comprendere se sia stato nulla il varco, è in sé ignota preghiera».
L’ “ignota preghiera” ci offre un primo indizio sul reale valore che Petrillo affida al Nulla. Niente di nichilistico, ovvero nessun atteggiamento di radicale o parziale svalutazione o annullamento o negazione della realtà. Qui il salto che fa il poeta è ancora più ardito e azzardato. Petrillo ci dà vari indizi sparsi qua e là, ma il più chiaro è questo:
«Un respiro sul nulla. Un soffio nel Dio».
Un respiro sul nulla-(Dio), un soffio nel Dio-(nulla)!
Del concetto filosofico di nulla i filosofi hanno dibattuto sempre, dall’antichità al medioevo, dalla modernità al contemporaneo, generalmente considerandolo come l’opposto dell’ente; sicché il suo significato è stato ricercato allora nella relazione nulla-essere. Ma il significato, o il senso, che i poeti gli danno è tutt’altro, e si avvicina più alla mistica che alla filosofia. Così per il teologo tedesco Bernhard Welte, nato a Meßkirch, la stessa città di Heidegger del quale era profondo conoscitore, il Nulla non è un’inesistenza: «Esso ha un tratto di infinitudine; è qualcosa come un abisso infinito. Non vi si trova alcun limite né per quanto riguarda lo spazio e il tempo né di nessun altro tipo: non vi si trova né un fondo né una fine. Si tratta della profondità abissale in cui si può cadere e in cui si deve, infine, cadere senza giungere mai a una fine. Il nulla non finisce mai. Esso rifiuta ogni limite, ogni limitazione e ogni determinazione». Un nulla che non finisce mai sembra, però, accostarsi più a un infinito che a un nulla, o, se vogliamo, a un infinito nulla.
Un respiro sul nulla-(Dio), un soffio nel Dio-(nulla)! Il tema è, in verità, in mistica, l’incomprensibilità di Dio. I teologi, anzi, hanno spesso preferito il “metodo negativo” perché affranca dal peso del sensibile, perché tutto, ma proprio tutto ciò che ha un nome è totalmente inferiore a Colui che trascende ogni nome, ogni cosa, tutto! Simile in ciò al metodo usato nell’antica filosofia indiana del Vedanta incentrato nella formula di negazione: «Neti, Neti», letteralmente Non è così, Non è così (na = no e iti = così) ovvero: non questo, non questo.
E se ciò è vero, allora, Dionigi Areopagita può affermare che Dio è “un nulla”, anzi “un puro Nulla” (il Buddismo parla di Vero Nulla appaiato al Vero Vuoto). E così Eckhart può aggiungere che Dio è senza nome perché nessuno può comprendere nulla di lui. Il nostro linguaggio umano è del tutto inadeguato a cogliere e ancor più a esprimere la trascendenza di Dio, l’Assoluto. Il nulla ci invita a tacere su ciò intorno a cui non siamo in grado di esprimerci.
E allora ecco la connessione e il collegamento strettissimo tra mistica e poesia che troviamo in Petrillo: la parola poetica si lancia sfrontata e impudente a cogliere l’Assoluto, laddove il nome viene meno di fronte a ciò che nominare non si può. Così San Giovanni della Croce, chiamato anche “dottore del nulla”, può parlare di Dio come “radicale trascendenza” e lo fa “poeticamente”:
«Dove ti sei nascosto, Amato,
che gemente mi hai lasciato?
Come il cervo fuggisti, dopo avermi ferito;
gridando t’inseguii, ma eri sparito».
Versi splendidi!
Per raggiungere “l’amato” occorre non solo “salire” (Salita del Monte Carmelo), ma camminare e procedere per l’oscura notte dell’anima (Notte oscura) nel “nulla del somigliante”.
Si dirà: “È misticismo”! “No”, si può rispondere: “È scrittura, è parola”! O, se si preferisce, è parola poetica, è Poesia.
Così Maria Zambrano sul legame tra poesia, religione e filosofia: «La Divina Commedia realizza questo momento felice, forse irripetibile, di unità senza vaghe e nebulose identificazioni, tra poesia, religione e filosofia. Alla poesia toccò il compito, che le era proprio, di mitizzare, materializzare quella speranza che filosofia e religione avevano eretto e sostenuto»2
2 Maria Zambrano, Filosofia e poesia, Pendragon, Bologna 2018, p. 90..
Per affermare ancora, nello specifico di poesia e mistica che: «Un altro momento di unità profonda fra le tre cose si verifica, almeno così sembra, attraverso la mistica. Qui si apre un problema a sé stante – che è doveroso perlomeno segnalare – relativo all’annosa questione se ogni poesia non sia, in ultima analisi, mistica, o se la mistica non sia, nella sua radice, poesia, vale a dire una sorta di religione poetica o religione della poesia»3
3 Ivi, p. 91..
Dell’Essere, aggiungo, non è padrone solo il mistico, ma tutti, compresi il filosofo e il poeta. E talora il mistico è tale perché poeta, oppure, come San Giovanni della Croce, è poeta perché mistico? Vediamo, a verifica, come si esprime San Giovanni della Croce allorché si libera dagli ormeggi della comunicazione verbale ordinaria:
«Entrai dove non sapevo,
E restai senza sapere,
Trascendendo ogni sapere.
Non dirò ciò che provai,
Perché rimasi senza sapere,
Trascendendo ogni sapere».4
4 Cfr. Juan de la Cruz, Strofe composte sopra un’estasi di alta contemplazione, in L’ascesa al Monte dei Melograni, a c. di D. Chioli, Libreria Editrice Psiche, Torino 2005. Ho leggermente mutato la traduzione citata in questo testo.
Quale modo più sicuro per indicare un luogo senza spazio fisico né conoscitivo? Quale “altro” modo per dire e significare quello che Petrillo chiama l’indicibile (perché oltre ogni dire) o l’insignificabile (perché al di là di ogni significato)?
Alla “radicale trascendenza” tende anche il poeta, allo stesso modo del mistico, anche loro hanno tentato, in collusione mistica, come fa la Petrillo, di andare “oltre” la parola, una sorta di “puro nulla”, o “vero nulla” come lo chiamerebbero i buddhisti, dove giacerebbe il fondo primigenio di ogni espressione. In realtà la pagina bianca, ovvero priva di parole, nome, forma, consciamente o inconsciamente è la meta cui molti poeti hanno teso i loro sforzi. Così, chiaramente, Mallarmé definisce la poesia “envoi tacite d’abstraction”, e per lui la poesia ideale sarebbe “la poesia taciuta, in bianco”, una sorta di “nulla” della parola che, annientandola, la supera! A Mallarmé potremmo affiancare Baudelaire, Rimbaud, Valéry, Holderlin (citato da Petrillo: «Holderlin canta l’Essere sacro»), per citarne alcuni che, forse inconsapevolmente, hanno cercato di spingersi “oltre” la parola. Come, tra gli ultimi, e più potentemente, Paul Celan, che di certo consapevolmente, ha sacrificato la “parola” per rifugiarsi nell’antiparola (Gegenwort), una svolta del respiro (Atemwende) – ricordiamo Petrillo di «Un respiro sul nulla» – come poeticamente la definisce: la poesia, di fronte all’orrore della storia (l’olocausto), rischia di divenire grido o suono inarticolato, fino al rischio del silenzio, che Celan interpreterà tragicamente nel modo più radicale troncando la sua stessa vita di poeta, e dunque negandosi, con ciò stesso, la parola poetica.
Si potrà obiettare che il nome di Celan non compare mai nella raccolta di Petrillo, eppure è presente, c’è, e si palesa in modo occulto, nascosto, e perciò ancora più significativo, laddove Petrillo scrive, e torna prepotente il nulla:
«La rosa che fiorisce incontro al nulla
Die Niemandsrose
Genesi incurabile di fiori morenti».
Die Niemandsrose, ovvero La rosa di nessuno, è infatti il titolo di una straordinaria coinvolgente e commovente poesia di Celan proprio sul Nulla che qui converrà riportare per intero:
«Sia lode a te, Nessuno.
È per amore tuo che noi vogliamo
fiorire.
Incontro
a te.
Un Nulla
eravamo, siamo,
resteremo, fiorendo:
la rosa di Nulla,
di Nessuno».
Lo straordinario miracolo di un nulla che era, è e resterà fiorendo, la Rosa del Nulla, che in quanto tale non può essere di nessuno.
È la rosa di Celan, ma straordinariamente è anche la rosa “irraggiungibile” di Borges:
«La rosa,
l’immarcescibile rosa che non canto,
[…]
la rosa che per arte d’alchimia
nasce di nuovo dalla tenue cenere,
[…]
l’ardente e cieca rosa che non canto,
la rosa irraggiungibile».
Qui di sicuro Borges fa riferimento a uno dei suoi più noti e amati racconti, La rosa di Paracelso, dove “per arte di alchimia” il grande Paracelso crea una rosa dalla tenue cenere, dal nulla.
La Rosa profonda è il titolo che Borges darà anche a una sua raccolta poetica pubblicata nel 1975. La parola poetica è, per Borges, proprio come la rosa, inestricabile, profonda, infinita, assimilabile, forse, a un nulla.
Tanto che, per Alda Merini, la rosa attende, poeticamente, l’eternità:
«E io penso alla lunga vita della rosa
Che aspetta senza angoscia
Di diventare eterna».
Quanto detto chiarifica ancora di più il progetto-programma poetico di Marina Petrillo, tornando alle sue parole d’apertura nella Nota che precede l’Opera:
«L’indicibile è in quello spazio sottratto al nulla della parola che non trova espressione se non attraverso il suo opaco riflesso. La poesia tenta di abitare tale cono di ombra in luce, tracimando ciò che l’esperienza sensibile nega».
Progetto poetico che effettivamente si ritrova nella raccolta, là dove Petrillo afferma:
«Essere sullasogliadell’Indicibile […] Il Nullaè silenzio dellastessanientificazione».
Per meglio comprendere le parole e l’assunto-intenzione della Petrillo possiamo ricorrere al Popol Vuh, il libro dei Maya Quiché, dove si narra che in principio era il nulla e la creazione ebbe inizio con la “parola”: «Non vi era nulla dotato di esistenza… Solamente vi era immobilità e silenzio nell’oscurità, nella notte. Soltanto il creatore, il Formatore, Tepeu, Gucumatz, i Progenitori… Venne qui allora la parola, giunsero Tepeu e Gucumatz, nell’oscurità, nella notte, e parlarono tra di loro Tepeu e Gucumatz. Parlarono, dunque, consultandosi a vicenda, e meditando; si misero d’accordo, unirono le loro parole e il loro pensiero».5
5 Popol Vuh. Le antiche storie del Quiché, Einaudi, Torino 1976, cap. I, pp. 11-12. Il corsivo è mio. E tutto fu!
Nell’opera di Marina Petrillo ci troviamo di fronte ad una ardita quanto potente operazione linguistica, o metalinguistica, che ella stessa definisce: «ATTITUDINE DEL POETA UNA SORTA DI TRANSUSTANZIAZIONE LINGUISTICA».
Il poeta opera una sorta di alchimia linguistica, o un incantesimo, nascosto in ogni particella di parola poetica che usa, alla maniera di Novalis «Ogni parola è un incantesimo». La potenza di questo incantesimo l’annotò Hugo in un notissimo luogo delle Contemplations: «La parola è un essere vivente, più potente di colui che la usa; scaturita dall’oscurità, essa crea il senso che vuole; essa stessa è quello e anche di più che si aspettano il pensare, il vedere, il sentire: è calore, notte, gioia, sogno, amarezza, oceano, infinità; è il logos di dio».
L’incantesimo metalinguistico agognato da Petrillo e Novalis è lo stesso desiderio che attira e persegue William Butler Yeats, che viene così ricordato a cento anni dal Nobel (1923) su “Pangea News”: «A Yeats, soprattutto – culmine di un immaginario fatato e fatale coltivato fin da ragazzo – attrae l’idea del poeta-mago, della parola-sortilegio capace di agire sulla struttura illusoria della realtà. Il canto, come dire, è continuo incantesimo»6
6 Pangea news, 27 maggio 2023. William Butler Yeats, Premio Nobel per la Letteratura nel 1923, molto interessato al misticismo e allo spiritualismo fu membro attivo della Società teosofica e uno dei primi membri della società segreta inglese magico-iniziatica di ispirazione rosacrociana nota come The Hermetic Order of the Golden Dawn, di cui divenne nel 1900 Magister Templi dell’Hermetic Order of the Golden Dawn. .
Un’operazione alchemica, un incantesimo, dunque, una magia, sicché affermerà ancora Novalis: «Il mago è il poeta» dal potere magico di evocare le cose che egli stesso nomina, “nominandole”. E lo strumento del suo potere è il linguaggio, come suggerisce Baudelaire: «Del linguaggio e della scrittura considerati come operazioni magiche, magia evocatrice»7
7 C. Baudelaire, Diari intimi, Mondadori, Milano 1970, pag. 54.
Anche Rimbaud, dal canto suo, parla, alla stessa maniera di come intende Petrillo, di «alchimia della parola»8
8 A. Rimbaud, Oeuvres complétes, Rolland de Renéville et J. Mouquet, B. de la Pléiade, Paris 1951, pag. 218 e segg. C’è chi insinua che Rimbaud, da questa e da altre espressioni, sia stato iniziato a pratiche magiche e si sia ispirato alla letteratura occulta, ma di prove non ve ne sono. È certo solo, però, che i cosiddetti Libri Ermetici, tradotti dal Menard nel 1863, fin dalla prima metà del XIX secolo erano presenti anche nei circoli letterari più elevati della Francia.
V. E. Michelet, conoscitore esperto delle dottrine di Hermes Trismegistos che andavano sotto il nome di Ermetismo, sembra che raccomandasse a Mallarmé di accogliere le dottrine ermetiche in poesia. Dobbiamo pensare che effettivamente Mallarmé abbia acconsentito all’operazione se in un suo saggio, dal titolo significativo, Magie, conferma il legame tra magia e poesia: «Esiste una segreta parità tra le antiche pratiche e il sortilegio che sarà sempre poesia», poetare è «evocare, in un’ombra espressamente voluta, l’oggetto taciuto, per mezzo di parole allusive, mai dirette»9
9 S. Mallarmé, Oeuvres complétes, H. Mondor et G. Jean-Aubry, B. de la Pléiade, Paris 1951, pag. 339 e segg.
, evocare, in un’ombra, una presenza. Così il poeta diventa «l’incantatore di lettere», che deve il suo strumento al dio Hermes (l’egiziano Thot) considerato l’inventore del linguaggio. Quella poesia che originariamente fu azione (poiesis da poiéo = faccio), legata al canto fu incantesimo, legata alla mimica fu dramma (drama = azione, drao = faccio), ovvero rituale, e si fa poi, in Mallarmé e Petrillo, azione magica rivolta a realizzare una «presenza».10
10 Non a caso presso i Romani il poeta era chiamato “vates” cioè indovino, profeta o veggente, come risulta dai derivati “vaticinium” e “vaticinari”
Per Marina Petrillo, dunque, la Parola è la quintessenza della sua poesia – e quanto detto finora e poc’anzi lo confermerebbe – volta addirittura a una sorta di transustanziazione poetica. Pure sembrerebbe esserci, in questa raccolta, un che di apparentemente paradossale: Petrillo, persa d’amore per la “parola”, inebriata e invasa a tratti dalla “parola”, cita spesso in questa raccolta il termine “parola”, e lo fa ben 14 volte, ma raddoppia addirittura le citazioni, portandole a 27, del termine “silenzio” che sembrerebbe opposto, in una frenesia di espressioni e in un tripudio di accenti che parrebbero mettere in ombra il potere della stessa “parola”. Solo qualche traccia significativa di quest’onda di silenzio che tracima in quest’opera11
11 I corsivi, le maiuscole, il grassetto sono tali nella raccolta.
«[…] Non conosciamo nulla e il silenzio è quello che tocchi senza vederlo».
«[…] tutto è possibile / se il silenzio acuisce, della vista, l’insoluto sguardo».
«Nascerà un’opera da questo silenzio e lava sarà, su animo lieve».
«[…] ingoiato ogni silenzio / ritrae a sdegno il brusio dello spento agone».
«[…] tramuta il silenzio in breviario delle coscienze».
«[…] forma prossima al silenzio».
«[…] Il Nullaè silenzio dellastessanientificazione».
«[…] il silenzio acquieta il battito».
«[…] Dai minuti negati che in silenzio creano una piccola ombra».
«[…] Indomito, il vento febbricitante di foglie inaugura il suo silenzio».
«[…] Fummo nel nulla primi alla vita. Antesignani al primo silenzio».
«[…] emanazioni giunte da ogni silenzio».
«[…] Dal cosmico silenzio, il ritmo dell’Immenso, Assoluto Esistere».
«[…] sillaba-silenzio».
«[…] Mi duole ogni sillabain silenzio udita».
Il silenzio sembrerebbe oscurare e zittire la parola fino a farla scomparire. In realtà, l’opposizione tra Silenzio e Parola non è una polarità dualistica ma una opposizione polare non dualistica. Infatti non può esistere l’uno senza l’altra, ed è l’uno a rendere possibile l’altra. È ovvio che non stiamo parlando di parole vuote, chiacchiere gettate al vento o su canali web, inesistenti ed evanescenti come la sostanza di quelle parole che vi circolano spesso, né tantomeno di falsi silenzi più simili a elusività forzate o a furbi nascondimenti; no, parliamo di parole autentiche e di silenzio tacitamente operoso. Ogni parola autentica è piena di silenzio, da cui la parola stessa prende vita. Parola e Silenzio costituiscono una “opposizione polare” (come la definirebbe Romano Guardini) significativa, ovvero dalla tensione polare tra la coppia di opposti parola/silenzio, nasce una dialettica tra gli opposti che si respingono ma che si presuppongono contemporaneamente, una sorta di reciproco e continuo condizionamento che mette in moto la complessa dinamica costitutiva dell’essere umano, che trova nell’opposizione Parola/ Silenzio il massimo grado. Non può esistere Parola senza Silenzio, l’uno rende possibile la vita dell’altra e viceversa. Non sono l’uno contro l’altro, e non sono neppure incompatibili. E Petrillo lo immagina, lo avverte, lo intuisce, lo sa, se scrive, ricordiamolo:
«[…] sillaba-silenzio»
«[…] Mi duole ogni sillabain silenzio udita»
E così dicendo mette chiaramente in connessione, apparentemente paradossale, parola e silenzio. Infatti solo una parola che viene fuori dal silenzio è parola “vera”; solo il silenzio che custodisce la parola, e anzi la prepara, è silenzio “vero”. Non c’è silenzio da una parte e parola dall’altra; il silenzio è in ogni parola, la parola è in ogni silenzio o, come dice Petrillo, in ogni sillaba; da una parte il silenzio è gravido di parola, dall’altra la parola permette lo scoppio vivificante e formante del silenzio, la sua dinamicità.
La parola silenziosa è la parola che appartiene al silenzio, il silenzio che è in ogni parola è parola fatta di silenzio, tanto da far male, come ammette la stessa Petrillo: «[…] Mi duole ogni sillabain silenzio udita».12
12 Non stupisca questo insistere di Petrillo sul termine “sillaba” che sembra usato come fondamento e “limite” della parola stessa. In realtà con intuizione poetica Petrillo si mette sulla scia della “scienza delle lettere” islamica secondo cui il significato di “parola” può essere stato derivato dal termine harf nell’accezione di “estremità”, “limite”. Già i primi specialisti della lingua araba analizzarono le componenti foniche di una parola pronunciata lentamente, e definirono con il termine “limiti” ciò che noi chiamiamo “sillabe”.
Io non posso avere parole per il silenzio, non posso parlare del silenzio, non posso neppure circoscriverlo a parole; il silenzio del quale sto parlando non è un vero silenzio, non è un silenzio reale; il silenzio non è oggetto sul quale io possa parlare ma neppure pensare. Se io parlo del silenzio lo distruggo, lo elimino con le mie parole; se il silenzio prende il sopravvento su di me, distrugge le mie parole, che dunque non potranno parlare di silenzio.
Ma possiamo parlare, come sto facendo, intorno al silenzio, girarci intorno, circoscrivere il suo territorio, caso mai indicare la strada che porta al silenzio, o che si origina dal silenzio, pure io che sto parlando, che sto usando parole, porto in me, nascosto e occulto, il silenzio stesso. Silenzio e parola sono collegati ma divisi, divisi ma strettamente e intimamente intrecciati. E l’uno permette la vita dell’altro.
Dalla sinergia paradossale di parola/silenzio la parola della poesia trae una forza e una energia interna che la parola comune non ha, è una parola “dinamizzata” che precede i processi del discorso, che vengono dopo, ed è più “verace” e più forte. Così Tynjanof:
«Sconnessi, appassionati discorsi!
Non si può capirne niente,
Ma i suoni sono più veraci del senso
E la parola è più forte di tutto»13.
13 J. Tynjanof, Il problema del linguaggio poetico, Il Saggiatore, Milano 1968, p. 106. .
Solo al poeta è permesso che il linguaggio “si” parli “in” lui, perché è al fondo della parola che riposa l’Essere, «non siamo noi che parliamo, è la verità che si parla al fondo della parola… è l’Essere che parla e non siamo noi a parlare dell’Essere»14
14 M. Merleau-Ponty, Le visible et l’invisible, Paris 1964, pagg. 239, 247. Su linguaggio, verità e ontologia si veda anche K. Mulligan, Language, truth, and ontology, Dordrecht, Kluwer 1992. Su verità e realtà, e sul linguaggio dal punto di vista logico e ontologico, si veda H. I. Hochberg, Logic, ontology and language: essays on truth and reality, Herbert Hochberg, München, 1984. Su pensiero e essere: dal punto di vista logico e ontologico, si veda J. König, Sein und Denken: Studien im Grenzgebiet von Logik, Ontologie und Sprachphilosophie; Max Niemeyer, Halle-Saale, 1937; P. Prini, Verso una nuova ontologia, Studium, Roma 1957.
E Dufrenne fa eco a Merleau-Ponty: «Perciò a volte siamo attenti alla parola che sta per venire pronunciata: attendiamo che ci riveli un essere, e forse la verità dell’essere ci importa più della verità di un’idea»15.
15 E M. Dufrenne, Fenomenologia dell’esperienza estetica, Lerici, Milano, 1969, pag. 200.
Sì, ma da dove proviene quest’essere atteso con così tanta trepidazione, e che porta in dono “la” verità dell’essere, e non “le” verità molteplici delle idee che si elidono a vicenda? Torniamo a quanto tramandato dal Popol Vuh: «Non vi era nulla dotato di esistenza… Solamente vi era immobilità e silenzio nell’oscurità, nella notte… Venne qui allora la parola…»16 ed ebbe inizio la creazione.
16 Popol Vuh. Le antiche storie del Quiché, cit., pp. 11-12.
La parola dunque nasce dal silenzio, quel silenzio che Hariwansh Lal Poonja afferma essere: «sorgente prima di tutto ciò che esiste, dimensione ultima del nostro essere e dimora viva e reale ove ha luogo l’incontro diretto con il proprio Sé infinito»17, anche se, possiamo aggiungere, la parola è nel cuore e nelle intenzioni del silenzio stesso, e permette al silenzio di essere tale.
17 Hariwansh Lal Poonja, Sul Silenzio, Le Loup des Steppes, 2021.
Si dirà che questo silenzio estetico sembra simile a un silenzio contemplativo, ma tale in realtà è. La modernità ha imposto l’azione come valore in sé, ha portato a considerare l’uomo attivo migliore rispetto al contemplativo, ma il risultato è una vita vissuta per l’azione, per il puro gusto dell’agire per agire, e spesso per l’azione senza senso, senza alcuna finalità, un attivismo cieco che porta l’essere umano a fare anche più cose contemporaneamente, ma senza attenzione al senso delle proprie azioni, volte ad una corsa infinita che non porta da nessuna parte. La vita contemplativa, presupposto di quella estetica o artistica, è invece una visione estatica della realtà. E ha bisogno di “silenzio”! Solo attraverso il silenzio ci si può aprire all’essere e accoglierlo così com’è, con rispetto e amore. Mentre l’uomo attivo si stordisce nei rumori dell’azione, il contemplativo, o estetico, nel silenzio si apre all’abisso del pensiero, all’interrogazione, sempre difficile, sul senso della vita, talora rischiando il precipizio davanti a ciò che non conosce dell’esistenza. Pure questo silenzio è premessa assolutamente indispensabile alla poesia e alle arti in genere. È questo che ci indica Marina Petrillo! È per questo che Rilke, in una lettera del 1903 al giovane poeta Franz Xaver Kappus, gli consiglia di ritirarsi in silenzio e solitudine prima della creazione artistica; immergersi poi nella natura per penetrare in se stesso, e infine in tale condizione crescere e aumentare la propria sensibilità verso la realtà e il mondo: «Questo solo è che abbisogna: solitudine, grande intima solitudine. Penetrare in se stessi e per ore non incontrare nessuno, questo si deve poter raggiungere. Essere soli come si era soli da bambini, quando gli adulti andavano attorno, impigliati in cose che sembravano importanti e grandi, perché i grandi apparivano così affaccendati e nulla si comprendeva del loro agire»18.
18 R. M. Rilke, Lettere a un giovane poeta, pp. 41-42. Lettera è del 23 dicembre 1903.
Rilke invita a raggiungere una sorta di condizione quasi simile a quella dell’archetipo junghiano di “Puer”, esattamente ed eccezionalmente quella stessa condizione a cui rimanda Marina Petrillo quando accoglie, designa e vive nell’ultima pagina della sua opera che va, appunto, sotto il titolo di “Puer”: «Perdere memoria del Tutto e nascondersi tra le foglie del Giardino. Non sottostare ad alcun comando e liberamente mangiare i frutti di ogni Albero. Indivisi dal Sé, tracciare esistenze plurime, maschile-femminile, pianta-pietra, sillaba-silenzio e porre mano alla propria creazione oltre dimensionale»!!!
Davvero eccezionale questa risposta di Petrillo a Rilke a distanza di 120 anni. Un secolo in cui l’accelerazione verso l’attivismo dell’uomo è diventato un torrente impetuoso prima e un ciclone inarrestabile poi. Francesc Torralba Rosello ben a ragione può affermare: «Contemplare in silenzio la realtà significa ritrovare il proprio tempo interiore. Senza contemplazione e silenzio non vi è arte, né poesia, né religione»19,
19 Francesc Torralba Rosello, Volti del silenzio, Edizioni Qiqajon, Magnano, 2012
come oggi possiamo facilmente constatare. Ma Marina Petrillo è una speranza viva che dona gioia al cuore e alla mente. Come non poteva il poeta dedicare al “tempo” il massimo dell’attenzionein unaraccoltache portanel titolo, “indice di immortalità”, il cuore stesso e tutte le contraddizioni e i misteri del tempo. Oltre a citarlo una quarantina di volte in tutta la silloge, al tempo l’Autrice dedica una intera pagina dal titolo paradigmatico di “Tempo: scissura dell’Eterno”.
Per Marina Petrillo il tempo rappresenta, sia nel linguaggio come nella percezione, un limite nella durata e insieme, dunque, un modo di sentire la distinzione più netta con ciò che sta al di là del tempo, ovvero l’eternità. Il tempo – il tempo concepito dagli uomini – è infatti, per sua stessa definizione, limitato dalla durata, e proprio per questo “finito”20.
20 Da notare, però, che J. Tynjanof la pensa diversamente per quanto riguarda l’atto poetico: «In poesia, invece, il tempo non è affatto percettibile», in Il problema del linguaggio poetico, Il Saggiatore, Milano 1968, p. 152.
L’Eternità, invece, o il tempo divino, non tanto è l’opposto di finito, ovvero infinito, ma costituisce, di più, la sua negazione, la negazione del tempo, l’“illimitato”. Il minuto, l’ora, l’anno, il secolo da una parte, l’eternità dall’altra. Tra i due poli nessuna misura che sia comune. Tra di essi, l’uomo, il poeta, scisso, spaccato, estremamente vulnerabile, in una vita che “dura” nel tempo, e perciò finita nel suo stesso inizio, e lanciata verso il precipizio incommensurabile dell’Eternità. Pure, in questa ansia del tempo, o dell’eternità che sta avanti, l’uomo dice: “C’era una volta…”, a indicare la nostalgia di un tempo perduto, o di una eternità, ferita, da cui sente di provenire. E quale arte, se non la poesia, al più alto grado, è capace di riflettere quest’ansia disperata? Chi, se non il poeta, straziato e divorato da questa nostalgia crudele, è avido di intimità profonda con l’eternità perduta? E allora il linguaggio del poeta, linguaggio umano, attinge alla memoria, unica custode di quel tempo aurorale, di quella età dell’oro, in cui tutto era possibile: “c’era una volta…”. Ma non ci si lasci ingannare, la poesia attinge alla memoria anche quando è proiettata prepotentemente verso il futuro: «la poesia sarà sempre memoria, sebbene inventi» (M. Zambrano).
Tutte le immagini di Marina Petrillo vertono su un unico punto focale, a rappresentare la scissione incommensurabile tra finito e infinito, fra tempo ed eternità, tra morte e immortalità, dell’attenzione in una raccolta che porta nel titolo, dedica una intera pagina dal titolo paradigmatico di “Tempo: scissura dell’Eterno”. le immagini di Marina Petrillo vertono su un unico punto focale, a rappresentare la scissione incommensurabile tra finito e infinito, fra tempo ed eternità e sentire il terrore per un vuoto troppo immenso da colmare, la mancanza di tempo, e il mistero stesso del tempo, così infatti l’Autrice: «Procede in progressioni matematiche di cui l’umana mente sconosce l’inintelligibile perfezione»; e ancora: «Il tempo scompare, poi irrompe improvviso», e ancora: «La ferita del tempo implode nel ventoso orizzonte degli eventi…».
Mistero e condanna, perché, con parole che vengono dai confini del tempo mitico, il tempo è Creatore: «Il tempo ha generato tutto quanto è stato e tutto quanto sarà» (Bhagavad Gita) e insieme Distruttore: «Il tempo, avanzando, distrugge il mondo» (Upanishad).
Così ci si accorge che il tempo, anziché conservare ogni cosa nella sua splendida veste di bellezza, la travolge nel nulla del passato. Ma questo per il poeta può essere un vantaggio notevole perché l’anima, riconoscendo di non poter avere alcuna proprietà stabile e sicura nella fuggevolezza del mondo, volge la sua attenzione alla voce divina, che sola è immutabile; e anticipa così, in questa stessa mutevole condizione terrena, il senso dell’eternità. E tale è la sottile notazione di Petrillo: «Così il Tempo diviene quel Tutto. Spazio indescritto, delicata ma implacabile scissura nell’Eterno. E l’Eterno È, per sua stessa estensione. Presenza di cui non è dato sapere, se non nella mente di Colui che È». Perciò in altro luogo è riportata, in due righe isolate lasciate cadere come una mannaia, una citazione di Isaac il cieco ovvero di Yitzhak Saggi Nehor, mistico cabalista: «Al di sopra del “pensiero”, vi è il Dio celato, “Ein-Sof” (Infinito)», il Senza Fine, Nulla Infinito, Interminabile, ovvero il Dio come essere segreto, il misterioso, il non rivelato, l’inconoscibile, più tardi assimilato dalla Qabbalah a uno dei nomi di Dio, ma concepito anche, cabalisticamente, addirittura come Dio prima della sua automanifestazione.
E torna Petrillo sospesa tra poesia e mistica, esoterismo e cabala, teologia e filosofia, e mille altre provocazioni, ma sempre declinate con tempi poetici.
Sembra il percorso complesso di un’ascesa o almeno il tentativo di una ascesa. Ma fin dove si può ascendere? Se al di sopra del “pensiero”, vi è una realtà celata, un Dio celato, “Ein-Sof” (Infinito)», il Senza Fine? Fino all’Infinita Luce, Ayn Sof Or? Ma l’Infinita Luce non è affatto disponibile alla conoscenza: «…non perché venga posta una fine e non per porre un inizio, ma poiché il Nulla primordiale produce l’inizio e la fine. Che cos’è l’inizio? Il punto supremo, che è l’inizio di ogni cosa, che rimane racchiuso nel pensiero, esso pone una fine, e viene chiamato la fine di ogni cosa». Pure nell’Infinita Luce non vi è nessuna fine, e colui che conosce pure non conosce l’Infinita Luce, poiché la volontà suprema è puro “Ein-Sof” (Infinito), Senza Fine, Interminabile, è solo ciò che vi è di più segreto: Nulla Infinito.
Petrillo ci lascia, ci indica quasi nascostamente, finita la raccolta, un altro indizio: pone all’inizio della raccolta, e prima Parola della stessa un INCIPIT a grandi lettere e in grassetto, da notare assolutamente; e poi alla fine della raccolta un’altra grande Parola, l’ultima, sempre a grandi lettere e in grassetto EXCIPIT, da notare assolutamente. Insomma un inizio e una fine!
La raccolta, vuol dire, ha forse un inizio e una fine? Non è proprio così se teniamo conto dell’amore di Petrillo per l’esoterismo. Nella Tabula Smaragdina (Ermete Trismegisto) è detto: «Ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso per fare il miracolo della cosa una». Ciò che è all’inizio è come ciò che è alla fine, ciò che è alla fine è come ciò che è all’inizio, è il miracolo dell’Uno.
All’Uno Petrillo tiene molto se nella raccolta ci torna più e più volte, e talora con la connessione Uno/Tutto:
«Essere Uno con il Tutto: questa è la vita della divinità, questo è il cielo dell’uomo».
«Come gli stoici affronto il destino se l’umano fato è concepire l’Uno e il Tutto…»
«Nell’Uno si acquieta lo stato di presenza».
«Alito e soffio di grazia sospesi nell’etere di un sentire dell’Uno».
«Alla preghiera antica torna il coro
degli esseri senzienti declinati a Uno».
«Alito e soffio di grazia sospesi nell’etere di un sentire dell’Uno specchio».
Inizio e fine, dunque, ma piuttosto come una sorta di Uruboros, il Serpente che si morde la coda formando un cerchio che non ha né inizio né fine, e che dunque rappresenta l’Eternità. Ma il serpente è simbolo anche di Immortalità a causa della muta. Una raccolta, dunque, che non ha né inizio né fine, indice di immortalità.
I pitagorici definivano l’unità «assenza di opposizione» poiché «Tutto è Uno». La stessa mistica è un poderoso ritorno all’Uno, matrice di tutte le cose. Ma in quanto matrice di tutte le cose è sia generatore della serie di numeri sia rapporto fra sé e il generare. È l’unità a generare la molteplicità delle opposizioni, come il “sacrificio” dell’opposizione riporta all’unità. Qabbalah e taoismo si intersecano e si collegano misteriosamente per vie segrete, così Chuang-tzu: «Al gran principio di tutte le cose c’era il senza-forma, l’essere impercettibile, non c’era nessun essere sensibile e pertanto nessun nome. Il primo essere che fu, fu l’Uno non sensibile, il Principio. Si chiama norma la virtù emanata dall’Uno che creò tutti gli esseri».21
21 Cfr. L. Wieger, I Padri del Taoismo, Luni, Milano 1994.
Vi sono molte speculazioni cabalistiche sull’Uno, ma il meglio è compendiato da S.L. MacGregor Mathers che nella Kabbalah così spiega: «Dividi 1 per 1 e rimane 1, moltiplicalo per se stesso e resta immutato, perciò bene rappresenta a puntino il Padre di tutto, l’Immutabile. Ma la sua natura è duplice e forma perciò un nesso tra negativo e positivo. Nella sua unità che non muta quasi non è un numero, ma in quanto addizionabile può considerarsi il primo di una serie di numeri. Orbene lo zero è incapace persino di addizione come lo è ‘ayn. Dunque, come mai se l’uno non può essere né moltiplicato né diviso, aggiungendo, si ottiene un altro 1, ovvero come si forma il 2?»
Prima di vedere la soluzione trovata da MacGregor Mathers, leggiamo un verso di Marina Petrillo che straordinariamente, in eccezionale sintonia con la Kabbalah, coglie lucidamente, in possessione poetica, la soluzione:
«Alito e soffio di grazia sospesi nell’etere di un sentire dell’Uno specchio».
Un verso davvero eccezionale se così continua MacGregor Mathers e scioglie l’enigma: «Dunque, come mai se l’uno non può essere né moltiplicato né diviso, aggiungendo, si ottiene un altro 1, ovvero come si forma il 2? Attraverso la sua riflessione, e inizia una vibrazione, perché l’uno vibra dall’immutevolezza alla definibilità e viceversa».
Attraverso la sua riflessione, appunto, come in uno specchio, giusto come scritto da Petrillo, e l’esempio stesso dello specchio ci trascina nel mundus imaginalis della tradizione iranica di Shorawardi22
22 Cfr. Henry Corbin, En Islam iranien: aspects spirituels et philosophiques, Gallimard, Paris 1971.
con la sua Filosofia della Luce, ma ci porterebbe molto, troppo lontano, alla confluenza di un pensiero zoroastriano, platonico, islamico con retaggio ebraico cristiano. Una teoria (‘alam-e mithāl, mundus imaginalis) che ricorda da vicino il mondo dello Yetzira della Cabala ebraica o il Barzakh della metafisica di Ibn Arabi.
Si dirà: è mistica, filosofia, esoterismo…, ma anche poesia se la stessa Emily Dickinson tratta dell’Uno nei suoi Selected poems and letters ove scrive: «Tis One by One – the Father counts –»[23] (Uno per Uno conta il Padre). E poi ancora più chiaramente, nella poesia 769: «One and One – are One / Two – be finished using» (Uno e Uno sono Uno, il due si cessi di usare).23
23 Cfr. Emily Dickinson, Selected poems and letters, a cura di E. Zolla, Mursia, Milano 1962, p. 64, XXXVIII, 545.
E nell’Uno, Principio e Fine che si riprende nel proprio inizio, si concentra e si scioglie l’intera raccolta di Marina Petrillo. Un vero e proprio Ouroboros, il mitico serpente che morde la propria coda (serpens qui caudum devorat), simbolo palingenetico che rappresenta la completezza, la perfezione, la totalità, il ciclo senza fine dell’esistenza. Nel suo infinito processo circolare è simbolo di immortalità, di continuo incessante rinnovamento, perché si tramanda che l’Ouroboros che divora e uccide sé stesso, si ridà la vita, ovvero rigenera sé stesso. È ciclo senza fine dell’universo: la creazione che segue la distruzione, la vita dopo la morte.
E si torna all’Uno. In un manoscritto bizantino dell’XI secolo, uno dei primi manoscritti alchemici esistenti, in un capitolo dell’opera
Chrysopoeia di Cleopatra (da χρυσός, chrysós, “oro” e ποιεῖν, poieîn, “fare”), è rappresentato un Ouroboros, metà bianco e metà rosso, con all’interno l’iscrizione: Ἓν τὸ πᾶν (hèn tò Pân) traducibile con “L’Uno (è) Tutto” ovvero “Tutto è Uno”, che sembra fare eco a Plotino quando afferma: «Tutto è ovunque, e tutto è Uno, e Uno è Tutto».24
24 Plotino, Enneadi, V, 8.
Fine che non è fine, dunque, e neppure inizio, come nel cuore della fine infinita dell’ “Ein Sof”, il Senza Fine, il Nulla Infinito, l’Interminabile.
Non solo Poesia, ma anche la più completa e ispirata sibillina condensazione di pensiero poetante: Poesia come Sapienza.
Marina Petrillo lo aveva anticipato proprio nelle prime pagine dell’INCIPIT, che ora può diventare anche un EXCIPIT, quando scrive e promette:
«Nascerà un’opera da questo silenzio e lava sarà, su animo lieve
Andrà a sconfiggersi tra piccoli anfratti e uscite secondarie
Scaverà un letto di pietra solcando in battito lo spazio del non detto
Restare in un punto è già perdersi in esso
Non tace più la folgore né il necrologio di un giorno scelto a suo perimetro
Passa attraverso me il gancio e non può non definirsi che celeste sfacelo
Se non andrà perduto nulla, altro si aggiungerà al vuoto».
Promessa mantenuta!
Come si scioglie, nella stessa pagina dell’INCIPIT anche il titolo della raccolta: Indice di immortalità:
«Al battere continuo alla porta dell’assoluto
risponde, in segnale, l’indice di immortalità».
Qui la chiave di lettura si offre nella simbologia della Porta: la porta infatti è il luogo di passaggio fra due stati, fra due mondi, fra l’uomo che batte alla porta, e l’assoluto che è dietro quella porta, tenebre e luce. La porta può aprirsi al mistero dell’Assoluto.
Nei versi di Petrillo “al battere continuo alla porta dell’assoluto” si associa chiaramente un valore dinamico e psicologico: non indica, cioè, solo un passaggio ma chiaramente invita e incita (“al battere continuo”) a superarlo. La porta è l’apertura che permette di entrare e uscire da un campo all’altro, da uno stato dell’essere ad un altro. Nell’accezione simbolica la porta indica il passaggio dal profano al sacro, come nei portali delle cattedrali, o dei torana indù, o dei torii giapponesi, o delle porte dei templi; in quest’ultimo caso ci aiuta l’etimologia del termine profano (pro= davanti, fanum= tempio, luogo sacro) che indica chi sta fuori dal luogo sacro, ovvero chi non ha oltrepassato la porta per entrarvi.
Il passaggio dalla terra al cielo si effettua in quella che è chiamata la porta del sole che nel simbolismo tradizionale dà accesso ad un ambito meramente extra-cosmico: “Essi procedono oltre attraverso la Porta del Sole”25
25 Mundaka-Upanisad, I, 2, 11.
che rappresenta l’uscita dal cosmo al di là delle limitazioni della condizione individuale.
La porta, dunque, come luogo di passaggio, e a maggior ragione di arrivo, rappresenta simbolicamente la possibilità di accesso ad una realtà superiore, foss’anche ad un diverso stato dell’essere.
La Porta del Sole rappresenta sul piano principiale il “Sole spirituale” (l’intraducibile “Supernal Sun” di Coomaraswamy) che, in quanto “occhio del mondo”, è la vera “Porta del Cielo” o Janua Coeli.26
26 Si dice anche di porte dei cieli (Genesi, 28, 17; Salmi, 78, 23) che Dio apre, (perché ne possiede le chiavi, in Apocalisse, 3, 7) per manifestarsi (Apocalisse, 4, 1) e concedere i suoi benefici agli uomini (Malachia, 3, 10). Nel Vangelo di Giovanni (10,1-10), Gesù dice «Io sono la porta». E ancora in Marco (13, 29): «Il figlio dell’uomo è alla porta».
Allo stesso modo una illustrazione del Libro dei Morti egizio ci mostra la Porta del Mondo e il Dio-Sole seduto a indicare che il Sole è la Porta e a significare che chiunque entra attraverso la Porta del Sole “è fatto salvo”.
Quella medesima porta indicata dallo Zohar con la stessa valenza: «Esiste inoltre, al centro di tutti i cieli, una porta chiamata G’bilon… Da quella porta sale quindi un sentiero che conduce sempre più in alto fino al Trono Divino…», fino all’Assoluto.
Perché è attraverso la Porta del Sole, attraverso la luce, attraverso il Centro del Sole che si può compiere la traversata iniziatica, il passaggio, dalla condizione mortale a quella immortale. E se la Porta si apre è indice di immortalità.
Perché «quando così lascia questo corpo, sale in alto per mezzo di questi stessi raggi del Sole… Con la stessa rapidità con la quale vi si potrebbe volgere la mente, egli giunge al Sole».27
27 Chândogya-Upanisad, VIII, 6, 5.
Ma attenzione: la stessa Chândogya-Upanisad avverte, terribile come la faccia di Amâm il Divoratore, tagliente come le fauci di Simsumâra il Guardiano della Porta:
«È proprio quella la porta del mondo, un accesso per il sapiente, ma una barriera per lo stolto».28
28 Ibidem.
E ciò vale anche per il lettore di questa raccolta.
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